I figli della paura: crescere tra urla, silenzi e ferite invisibili
L’ho scritto stanotte questo pezzo, di getto, perché è un argomento a cui tengo profondamente. Perché mi attraversa ogni volta che incontro, anche solo in un fascicolo, un bambino invisibile. Perché il diritto non basta se non è animato da coscienza e da voce.Quando si parla di violenza, è fin troppo facile immaginare le ferite sul corpo. Quelle visibili, quelle che lasciano segni. Ma le lesioni più profonde sono spesso invisibili. E, ancor più spesso, si depositano nella psiche di chi “non c’entrava niente”. O almeno così si dice.
I bambini che vivono in ambienti familiari violenti non sono semplici spettatori: sono vittime. Anche se nessuno alza loro le mani addosso. Anche se non gridano. Anche se nessuno li chiama in causa. In diritto penale esiste un’espressione che andrebbe scolpita nella coscienza collettiva: “violenza assistita”. Si definisce così l’esposizione di un minore alla violenza agita su un altro componente del nucleo familiare, solitamente la madre ma non sempre anzi, i padri vittime di compagne violente sono molti più di quanto si immagini. È un trauma profondo, reiterato, subdolo, spesso normalizzato. È il rumore delle urla dietro una porta chiusa. È il pianto soffocato. È l’odore della paura che impregna le pareti di casa. Il bambino non può scegliere di andarsene. Non può difendersi. E soprattutto, non capisce: non capisce perché chi dovrebbe proteggerlo non è al sicuro, non capisce cosa abbia fatto per meritare tutto questo, e non capisce come possa chiedere aiuto. Minori invisibili, ma profondamente segnati. Nel mio lavoro si incontrano bambini che parlavano poco e guardavano molto. Bambini a cui nessuno aveva mai chiesto: “Come stai?”. Bambini che diventano adulti troppo presto o che restano bloccati in un’età in cui la violenza ha fermato il tempo. La legge li tutela – almeno sulla carta. L’art. 31 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia sancisce il diritto dei minori a vivere in un ambiente sereno. La Convenzione di Istanbul definisce la violenza domestica come una violazione dei diritti umani. Ma nelle aule di tribunale e nei corridoi dei servizi sociali, quei bambini faticano ancora a essere riconosciuti come portatori di un trauma a pieno titolo. Eppure, lo sappiamo: un bambino che assiste o subisce violenza diventa un adulto a rischio. A rischio di replicare gli stessi schemi, o di subirli. A rischio di non riconoscere l’amore, perché non gli è stato insegnato. A rischio di confondere il dolore con l’intimità, il controllo con l’affetto.Vittime due volte: del silenzio e dell’omissione Le responsabilità non sono solo di chi agisce violenza. Sono anche di chi non vede, non segnala, non interviene. Genitori, insegnanti, pediatri, vicini, amici. Tutti coloro che si voltano dall’altra parte, temendo di “invadere” la sfera privata.
Ma la violenza domestica non è una questione privata. È un fatto sociale, giuridico, umano. È reato. E il dovere di proteggere i minori è previsto non solo dalle leggi, ma dalla coscienza civile.Chi esercita la professione legale ha un compito in più: tradurre il dolore in diritti, far emergere ciò che è sommerso, accompagnare le vittime anche le più piccole verso la restituzione della loro dignità.Cosa possiamo fare, concretamente? Segnalare ogni situazione sospetta ai servizi sociali, anche in forma riservata. Chiedere ai minori come stanno, e credergli, i bambini vanno visti, vanno ascoltati.Collaborare con le scuole e le istituzioni per creare ambienti sentinella.Nei procedimenti di separazione, non minimizzare la violenza assistita: essa ha un impatto decisivo sull’affidamento, anche se il minore “non è stato toccato”.Sostenere e promuovere percorsi di educazione all’emotività e al consenso sin dall’infanzia. Perché un bambino che cresce nella violenza non impara solo a sopravvivere, ma rischia di non imparare mai a vivere.
Antonella Palladino avvocato